Il Presidente del Consiglio attuale, Silvio Berlusconi, ha sempre sostenuto, non senza un certo disprezzo, di starsene lontano dal “teatrino della politica”. La locuzione era azzeccata, visti i minuetti a cui spesso abbiamo assistito. In senso positivo, questo modo di esprimersi vantava una maggiore capacità di decisione della nuova maggioranza. Contro il “teatrino”, ha sempre contrapposto la capacità di operare in team (gioco di squadra) , efficienza direzionale (azienda italia), strategia di leadership (allenatore della squadra), vero riformismo (cambiamento reale).
Vorrei sottoporvi alcune personalissime riflessioni ad alta voce su ciascuno di questi punti.
Teatrino della politica.
La attuale maggioranza si basa su una coalizione scivolosa e costruita con abilità. Ciò rivela indubbie capacità dei leadership nella sua costruzione. Questa maggioranza è eterogenea ne più ne meno come quella dell’Ulivo, sebbene appaia più ordinata . In questa maggioranza convivono spezzoni della passata repubblica: ideologie solidaristiche di stampo cattolico e di destra con il neoliberismo estremo e statalismo della piccola borghesia, nazionalismo un po’ fanfarone con scissionismo localistico, populismo antistatale e antistatalismo efficientista. Questa maggioranza si ritrova ne più ne meno come il centrosinistra degli anni ’80 con un “ago della bilancia” conficcato in petto e occulta minuetti e ricatti interni riconducendoli alla solita incomprensione altrui, alla manipolazione delle idee da parte delle congiure dei giornali (esteri compresi) che offrono scarsa informazione e nulla visibiltà alla popolazione sulle riforme varate nel primo anno di governo.
In questa coalizione il teatrino è uno situazione quotidiana vestita e cucita su un abito stretto.
Questo nuovo teatrino soffre inoltre di un’altra ambiguità che non è per nulla superata dopo le elezioni: la forzatura in senso presidenzialista che sempre di forzatura è .
In quasi tutti i sondaggi, quali che siano gli argomenti l’Italia appare sempre spaccata in 3 anime che si aggregano e disgregano. Se è veramente così, e ci sono scarsi elementi per sostenere che non sia così, l’operare in team non è sufficiente per superare l’impasse. Può occultarlo, ma non risolverlo solo con l’apparente gioco di squadra, perché rimangono nodi profondi da chiarire.
Il gioco di squadra
L’elezione di un rappresentante della piccola e media industria come responsabile della Confindustria ha fornito un collante non indifferente al gioco di squadra. Questa rappresentanza industriale è più coesa dell’attuale maggioranza per vari motivi, non ultimo il fatto non trascurabile che le medie e piccole imprese sono unite nei problemi almeno da 10 anni e non hanno mai avuto una rappresentanza pari all’importanza sociale che hanno.
Le piccole e medie imprese (gli imprenditori che le conducono) sono politicamente omogenee almeno a partire dai terremoti elettorali del 1990, prima delegavano poi hanno smesso di farlo. Alla loro rivolta, in buona parte, si deve la fortuna della Lega fino alla fine degli anni ’90, l’antistatalismo è nato in Lombardia e nel Nordest come ribellione, ma da due anni, sebbene permangano discreti feudi è rifluito verso le casse elettorali del premier di Forza Italia.
Questo gioco di squadra però ha prodotto un “collateralismo” del sindacato degli imprenditori con l’attuale maggioranza. E questo sindacato (rappresentanza se preferite) chiede ora che la sua rappresentanza sociale divenga anche la rappresentanza politica dei suoi interessi, che si governi tenendo conto dei suoi interessi. Questo è il motivo credo della intransigenza dei leghisti che difendono la loro base elettorale più consistente che si va sfilacciando.
Il gioco di squadra della leadership così è in leggero conflitto con una “panchina lunga” , che oltretutto ha giocatori che hanno scarsa conoscenza di un aspetto importante in Italia: i piccoli imprenditori non conoscono la tradizione sindacale dei lavoratori, la esperiscono ideologicamente, ma non in pratica: semplicemente nelle loro aziende non c’è presenza sindacale (anzi questo fatto viene ritenuto uno dei principali motivi del loro successo).
Il “federalismo” già attuato nella conduzione delle piccole imprese costituitesi in gruppi di aziende, è questo. Ed è nato esaltando la flessibilità alle turbolenze economiche e l’adattamento “astuto” alle rigidità italiane. Il centrosinistra ha reagito con la briglia sciolta, chiedendo ampi sacrifici alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e ai lavoratori, ma lasciando anche ampiamente scoperti due problemi: la tutela dei nuovi lavoratori e il riconoscimento della rappresentanza dei piccoli imprenditori. Non si è piegato sul lavoro nero, ma nemmeno ci ha messo una pezza.
Ora gli imprenditori esigono che la loro cambiale elettorale sia pagata, il federalismo economico non è più sufficiente e l’idea evidente è che la scomparsa del sindacato dei lavoratori permetta loro una maggiore crescita. Dalla loro hanno la pratica nelle loro aziende e l’idea che l’efficienza direzionale sia il modello.
Efficienza direzionale
L’efficienza direzionale si basa su merito e potere e si misura confrontando risultati con risorse. In azienda si coopta , non si elegge nessuno tranne che all’assemblea degli azionisti e tutto è rivisto con scadenza annua che vaglia il rapporto tra i fattori che determinano l’efficienza.
Nelle piccole aziende italiane non c’è nemmeno il vaglio tra soggetti diversi, visto che proprietà e direzione coincidono. Avveniva così anche nella sinistra (cooptazione dei dirigenti) , sebbene con processi digestivi più o meno lunghi e con il vaglio dell’impegno del lavoro volontario in relazione al consenso. La delega in azienda va sempre e solo in una sola direzione, dall’alto verso il basso, mai al contrario. Il problema è sempre quello di un funzionamento adeguato dello staff. Un’azienda è una macchina e il modello , con varianti più o meno consistenti, è sempre quello logistico cioè quello delle organizzazioni militari. Ciò è meno vero nelle aziende “creative” dove prevale il modello cooperativo ( ma queste aziende stanno nel terziario avanzato che interessa di meno le piccole aziende).
L’attuale maggioranza non solo ha scelto questo modello, non poteva essere diversamente, ma vi ha aggiunto l’idea di democrazia economica. La democrazia economica si basa sul presupposto che l’esercizio del diritto elettorale sia paragonabile a quello svolto dalla moneta nelle transazioni: un voto è come un soldo per il cliente, la mancanza di un flusso di cassa genera il declino del fornitore e del suo prodotto; se è insoddisfatto l’elettore come il cliente muta la direzione nella sua spesa.
La semplicità di questo modello è sufficiente per garantire l’efficienza del mercato politico.
L’attuale maggioranza ideologizza questa equazione e afferma che l’elezione è di per se sufficiente per occupare tutti gli ambiti della vita sociale: una libera elezione legittima ogni scelta programmatica offerta all’elettorato , perché un successo copre tutti gli ambiti. Il sondaggio, così come per i consumatori, è il principale strumento di verifica. Ciò richiede però che l’oggetto del sondaggio sia frazionabile e comprensibile, cosa che per un materiale politico e aspetti complessi non è per tutti (in questo AN ha una conoscenza e tradizione che ad altri sfugge). A queste mancanze agisce come surroga la leadership del Premier.
La leadership.
Il presidente del Consiglio ha avuto esperienze di successo imprenditoriali in settori particolari. Nel settore edile dove il lavoro da oltre quarant’anni si basa sulla flessibilità di appalti e frazionamento delle imprese e nello spettacolo-pubblicità-televisione, dove la flessibilità è la regola e il merito da sempre coincide con il successo individuale della comunicazione. La presenza sindacale in questi settori (fatto salvo quello edilizio in parte, sempre surrogato con prestazioni economiche) è sempre stata piuttosto scarsa. Nel settore della comunicazione la leadership è decisiva e il Presidente del Consiglio ha indubbie doti in questa direzione che egli, per sue aspirazioni, ha riversato in politica.
L’attività politica tuttavia richiede anche capacità di mediazione, oltre che lungimiranza e comunicativa, che va esercitata in innumerevoli direzioni. Per un imprenditore gli aspetti irrinunciabili con i terzi sono: il clima di fiducia che porta ad un contratto, il rispetto del contratto liberamente sottoscritto. La mediazione , necessaria soprattutto all’interno della organizzazione, è ridotta il più possibile ad un problema di scelta delle risorse umane e da una ridotta carena di comando.
Per un imprenditore, convinto che una democrazia economica è la soluzione è difficile capire che su alcuni aspetti la possibilità di fuga (scegliere un altro prodotto esistente sul mercato) è impossibile e l’unica via è quella della protesta: stretti in un angolo e senza altre opzioni si alza la voce.
Per un imprenditore , sostenuto da piccoli imprenditori è impossibile capirlo. Così la leadership acquisita portando al successo una coalizione molto eterogenea si alimenta della convinzione che per dimostrare di essere efficienti occorre premere sull’acceleratore in senso riformista. Costi quel che costi. Ma le anime della coalizione hanno acuti differenti e ambiscono a spazi differenti e irrinunciabili (è accaduto anche per la nostra posizione europea, dove AN e Lega sono unite da un grado di localismo diverso sebbene possa apparire una facciata uguale).
Vero riformismo
È una parola vuota, ma sostenuta dall’idea di cambiamento, che nel sindacato italiano ha un significato storico preciso (qui è necessario introdurre il sindacato dei lavoratori e la loro anomalia) perché “Le riforme” sono una parola d’ordine e di pratica (non importa se deluse o meno) fin dalla fine degli anni ’60. Una parola d’ordine che per la fluidità della classe politica, si esercitava su una vacanza della politica.
Le prime operazioni dell’attuale governo nei settori della giustizia, scuola, politica internazionale, nel settore della comunicazione appaiono come un cambiamento, ma almeno il 50 % della popolazione fatica a vederle come riforme, anche per via di uno strepitare e di toni a cui nelle pubbliche cariche non si era abituati.
L’ammodernamento del mercato del lavoro, già necessario da anni e già in parte condotto per necessità (il congelamento della scala mobile è se non erro del’92) e per altro per volontà (dopo il ’95 con l’introduzione di innumerevoli contratti atipici) non sorretta però da una visione di insieme equilibrata, è stato presentato con un preambolo che al sindacato appare come una pistola puntata alla tempia, affermando che non si tratta che di piccola modifica in un contesto di “liquidazione di conti”. Questa testardaggine evidente ai più (sia nel senso di desiderata o di temuta) , ha stracciato la concertazione e al sindacato (tutto il sindacato italiano, quale sia la sua colorazione) è stato richiesto senza mezzi termini di abolire l’unica norma che preserva gli esigui (rispetto al passato) quadri sindacali.
Era evidente che questa premessa era inaccettabile (perfino Billè della Confesercenti l’ha pubblicamente affermato). Sul desiderio di “cambiamento”, ripeto indipendentemente dal giudizio di valore sulle misure proposte, ha prevalso lo cambiale in scadenza.
Che lo sciopero del 23 marzo abbia assunto il segno dell’”anomalia” sindacale italiana è evidente, ma è altresì evidente che la maggioranza non ha compreso un fatto importante: in quella manifestazione la piazza non intendeva capovolgere l’esecutivo, ma offrire all’esecutivo una controparte, che il balbettio noioso di un’opposizione parlamentare divisa e quasi infantile non ha (anche di fronte a provocazioni liquidatorie spinte e virulente).
È vero Cofferrati ha ricompattato un’opposizione parlamentare e non parlamentare nella migliore delle tradizioni anglosassoni, sfilando nelle piazze con compostezza. Ciò può non piacere, ma l’attuale maggioranza (stupidamente scimmiottata già durante le elezioni da un Ulivo in totale crisi di identità) ha costruito il suo successo delegittimando in tutti i modi l’opposizione (ben si ricorda il rifiuto dei dibattiti, la pesante campagna contro Rutelli) e ora si ritrova un leader non parlamentare che ben difficilmente e pragmaticamente mollerà la presa a cui La casa delle Libertà si è consegnata.
Minimizzare la manifestazione della CGIL di Roma bollandola di conservatorismo, non vedere (o far finta) che lo scontento non è solo un fatto di iscritti o di un pugno di esagitati; offendere come gitanti chi è mosso da preoccupazioni serie, non scorgere il fastidio che serpeggia nel paese , tra la gente si direbbe, per certe posizioni disinvolte che negano l’evidenza come certi giornalisti televisivi che parlano di una nebbia fitta dove brilla in realtà il sole, è fatto grave e preoccupante.
E dopo Roma è sciocco pensare che ci si trovi di fronte ad una azione come quella sindacale del 1994. Allora non si accettava Berlusconi al governo, ora tutti l’hanno digerito , magari di malavoglia.
Per cosa questo braccio di ferro ? Per l’articolo 18 ? o piuttosto per insipienza e una cambiale firmata in bianco?
Sarà un aprile ventoso e tutto congiura per un vento dell’est sempre più freddo , desiderato da nessuno, che una depressione politica nella attuale maggioranza alimenta sempre più, per incapacità o per volontà. Così mi pare.
L’Italia non è l’Inghilterra e alla casa delle Libertà non sono i Tories capeggiati dalla Tatcher, ma una coalizione fragile che per assurdo possiede una maggioranza come mai c’è stata nella storia politica italiana.
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Ipotesi di evoluzione:
- approvazione della delega aumento costante del conflitto politico e sociale in un cul de sac
- reimpasto postelettorale delle frange più oltranziste della maggioranza
- distensione a seguito di un dibattito televisivo tra governo e sindacati, cioè congiunto passo in dietro
- stralcio della delega o ripiegamento del sindacato (atti unilaterali e assai difficili dopo la giornata odierna del 26/3/2002)
Zen lento
25 aprile 2008 alle ore 16:58
rrrrrr cielo google